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-7- Tre Ricorrenze e Loro Sviluppi -B- Sintesi della Filosofia Classica

Salita alla Montagna delle Rose e Valori culturali connessi

Premessa

 L’ormai secolare tradizione ricorda che il primo giorno di agosto ricorre l’anniversario dell’arrivo a Palazzo Adriano di un gruppo dei militari seguiti dalle loro famiglie, mandati nel 1448 da Skanderbeg in Sicilia, in Calabria e in Puglia. Essi costituivano la sua retroguardia in occasione dell’assalto all’Albania del grandissimo esercito del sultano turco Murat II in quell’anno ed in altre frequenti occasioni simili. Poiché quei soldati con le loro famiglie erano persone di ispirazione religiosa, in quel giorno che segna l’inizio della quaresima della Madonna Assunta, essi, come ricorda la stessa tradizione, si prepararono un cibo penitenziale costituito da grano bollito (grurë). Poi le guerre difensive contro i Turchi, dopo la morte dello Skanderbeg, non poterono più sostenersi in Albania e quel che rimaneva del suo esercito dovette arretrare il suo fronte in Italia, seguito da grandi masse di profughi. Una parte di quell’esercito, circa il 1480, venne a congiungersi col corpo militare già stanziatosi in questo paese trent’anni prima. Tra questi nuovi arrivati si trovavano persone che conservavano i documenti degli accordi stipulati da Skanderbeg con la Santa Sede e col re di Napoli. Quei documenti riguardavano l’accoglienza nei loro Stati, degli Albanesi nel caso che andassero male le loro guerre contro i Turchi. Alcune di quelle persone portavano nomi e cognomi dei parenti dello Skanderbeg, dei suoi principali generali, di alcuni eroi celebri per imprese personali e della principale nobiltà d’Albania del periodo. Quei famosi nomi e cognomi dopo più di 500 anni qui si conservano tramandati da nonno a nipote e possono incontrarsi tutt’ora portati da persone che passeggiano con gli altri in piazza.

Venuta meno la speranza della resistenza in Albania, giunsero in questo paese altre ondate di profughi albanesi anche dalla Grecia, dalle loro città di Corone e Modone, e subentrò la nostalgia della patria lontana. Probabilmente tra questi profughi arrivati a Palazzo Adriano, come risulta da qualche dubbia tradizione orale e da sicuri indizi, fu composto quel canto diventato famoso ed adottato da tutti i Greco-Albanesi d’Italia, dal titolo “O e Bukura Moré”. Sorse così la consuetudine che nell’anniversario dell’arrivo in questo paese si usasse salire sulla più alta montagna dei dintorni per  celebrare la Messa e, rivolti ad oriente, salutare la lontana patria perduta con quel canto che dice: “Oh bella Morea, come ti ho lasciato e più non ti ho visto! Lì ho il signor padre, lì ho la signora madre, lì ho anche il mio fratello”. Si trattava quindi di una società molto distinta, che aveva realizzato una grande epopea sotto la guida dello Skanderbeg. Qui denominarono i dintorni con i nomi delle loro zone nell’antica patria, si costruirono il loro paese con le tipiche strutture urbanistiche dell’usanza bizantina, da essi rinnovata ed arricchita con nuovi capisaldi, si fecero riconoscere i loro “privilegia seu consuetudines” oppure “consuetudini et observantii” (privilegi, consuetudini ed osservanze). Il loro patrimonio principale, assieme a quello sociale della loro democrazia, poi presa ad esempio da alcuni statisti, fu quello religioso, costituito dal rito bizantino e quello culturale dell’antica civiltà greca di arte e di pensiero intramontabile. Essi perciò conservarono e difesero strenuamente quel rito ed insegnarono quella loro cultura non solo al loro popolo ma anche nei vari paesi che frequentavano e in tante università o istituti equivalenti d’Italia dove insegnavano il greco, a cominciare da Cortese Vranà (Branaius) che insegnò nello “Studio” di Napoli nel XVI secolo fino a Giuseppe Crispi, zio dello statista dello stesso cognome, che insegnò la stessa materia nell’università di Palermo nel secolo XIX. Con l’ultimo di essi, Nicolò Camarda, fratello del linguista Demetrio e zio dell’altro linguista, il vescovo Paolo Schirò, si chiuse questa secolare esperienza. Così nel XX secolo sopraggiunse un grande cambiamento. L’idea del risorgimento nazionale albanese fece rivolgere l’ attenzione verso il principale patrimonio di quel popolo di allora, costituito dalla sua antichissima lingua e da altre sue tradizioni. Si istituirono così varie cattedre di lingua e letteratura albanese e la cura del rito e del patrimonio culturale bizantino fu affidata ad altrettanti insegnamenti di istituzioni bizantine, ma non si sottolineò più il patrimonio culturale greco-classico. In fase iniziale le cattedre di bizantino e di albanese a Palermo abitualmente venivano collegate insieme. Questo fatto quindi non comportava l’abbandono dell’enorme patrimonio del rito religioso e delle tradizioni culturali legate al mondo greco e bizantino che essi portavano nel loro stesso nome essendo abitualmente chiamati o greci o greco-albanesi. Mentre localmente si andava sviluppando l’interesse linguistico e la cura delle specifiche tradizioni albanesi in genere collegate alla tradizione greca classica e bizantina, in seguito al consolidarsi del protestantesimo e alla rivoluzione francese si vide chiaramente che in Europa e nel mondo si era andato sviluppando un altro tipo di cultura proveniente dall’Europa del nord che però, proponendo la “deellennizzazione” della religione e dei valori dell’antica civiltà, riecheggiava contenuti legati alla sofistica e allo scetticismo. Diventava quindi urgente il suo confronto con l’antico mondo del cristianesimo e della civiltà classica. Il primo che tra i Greco-albanesi diede l’avvio a questo tipo di confronto fu Nicolò Chetta, morto nel 1803, originario di Contessa Entellina, erede culturale del Gran Parrino, Paolo Maria, di Palazzo Adriano. Il Chetta fu poi seguito da tanti altri come i due Crispi, il Dara etc. Questa linea culturale poi si andò sviluppando fino a Costantino Mortati, albanese di Calabria e alla formulazione dell’attuale Costituzione Italiana.

Ma anche la moderna cultura di origine nordica si andava potentemente sviluppando nella politica, nelle università e nei mezzi di comunicazione. I Greco-albanesi d’Italia fino alla metà del XX secolo, cercarono di tenere salde le loro antiche tradizioni religiose e culturali che andavano a salutare dall’alto dei monti, legate sia al mondo greco che a quello albanese. Ma alcuni di essi poi cominciarono ad aprirsi alla cultura nordica filologico-linguistica e formalistico-relativistica, spesso senza rendersi conto della gravità del pericolo che essa rappresenta. In tali circostanze alcune difficoltà ambientali in Sicilia determinarono la necessità di un intervento della Santa Sede anche di valore simbolico per tutti i Greco-Albanesi ed anche per altri popoli. Il papa Paolo VI nell’agosto del 1967 con una lettera della sua Segreteria di Stato, a firma del cardinale Cicognani, invitò l’allora vescovo della nuova Eparchia greco-albanese di Sicilia ad acconsentire affinché un sacerdote di essa si preparasse per andare a testimoniare la fede e la dottrina cattolica, (secondo l’antica tradizione, presente nella cultura greco-bizantina e in quella albanese), presso l’Università statale. Si constatò subito che la situazione era molto difficile. Però, essendo garantita la libertà di insegnamento, fu possibile sostenere in quella Università il tradizionale patrimonio della Chiesa e di quelle colonie greco-albanesi davanti ai colleghi e alle varie centinaia di alunni che seguivano quel corso. Anche a più vasto raggio, dove si poté arrivare, sulla linea di quel saluto rivolto all’antica patria d’oriente, furono pubblicati vari lavori. In quella Università fu pure preparata una dispensa che presenta una sintesi dei principali corsi di lezioni di quella materia tenuti in quella università, messa nel programma scolastico per alcuni decenni a partire dal 1980. Essa fu intitolata:  “Oriente d’Italia”. Assieme alla cultura classica e ad alcuni principi fondamentali della religione, essa  presenta anche un confronto con alcune delle culture moderne.

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